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ALCUNI TESTI CRITICI

 

 

 

 Il pieno delimita il vuoto nell’opera in ascesa di questo scultore, al tempo stesso che il vuoto raccoglie il pieno. C’è un’attrazione continua tra i due complementari che ci richiama all’origine della genesi: uomo e donna, iniziatori del genere umano, vi si attraggono vicendevolmente in un fugato che attira il pieno (la pienezza, il pleroma della vita) nella sua cavità d’ombra.

            Retaggi ben capiti di Moore e di Brancusi indicano il traguardo di Marino Di Prospero, che mira ad una identificazione del volume e del relativo squadro prospettico, come dire, nell’inesorabile traslato metafisico, dell’essere e del l’esistere.

            Sulla strada in cui felicemente s’è messo, gioveranno a Di Prospero ulteriori rinunce, specie dinanzi ai tentacoli del naturalismo, secondo l’antico e sempre attuale consiglio di Michelangelo, il quale ammonisce che la scultura consiste nel «levare».

Nicola Ciarletta

 

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            (...).”Marino Di Prospero rilegge le opere del passato per ritrovare motivi e sentimenti antichi e si rivela conoscitore serio della tecnica scultorea, attento ai richiami di un suo mondo intimo ricco e creativo.

            Nella sua scultura, e in queste figure lo conferma, tornano i motivi di un passato tutto da studiare: l’Egitto, la Mesopotamia, il mondo greco, il rinascimento e ancora i maestri più recenti quali Moore e Brancusi.

            Un disegno dinamico, emotivo, sembra esaltare le forme che o si librano nell’aria quali angeli annuncianti o si piegano a racchiudere e a preservare i più antichi miti della fecondità e della nascita, che si rinnova e si identifica con il tema stesso della creatività.

            L’alchimia, come ricerca, sottesa a questi, emerge tra tagli e cavità con effetti formali che svelano interne pulsazioni poetiche.” (...)

Maria Grazia Tolomeo Speranza

 

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(...) In lui esiste una forza arcaica e totemica distribuita con rituale costante nella manipolazione di materiali come il legno, il ferro, la pietra, le corde, desunti anche dal mondo agricolo, che immobilizza lo spazio circostante.

            Le forme talora antropomorfe desiderano, come avveniva alle sculture di Moore, una contemplazione a distanza, quasi ad eludere il mistero dell’azione del tempo che ha plasmato quelle forme atemporali, divenute antenne di vastissimi orizzonti(...)

Leo Strozzieri

 

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            (...) “Nelle opere di M. Di Prospero si raggruppa il sapore di una tradizione che i secoli hanno reso cultura, si espande l’odore di riti di cittadelle assediate e la brace della geografia di originarie espressioni guerriere e contadine, una storia che non è solo terra dell’uomo, ma anche anamnesi di situazioni storiche sedimentate nella memoria collettiva in mitiche narrazioni della tradizione.

                        Queste sculture generano stupore, un attimo di vacillante turbamento dello sguardo dinanzi a questo minuetto di linee curve e volumi nello spazio, e questa esperienza non è una lirica suggestione dovuta alla purezza della geometria delle forme. I volumi, gli spazi, le tensioni geometriche verticali o le pieghe leggere del tendersi dell’opera, gli oggetti d’uso che l’opera calamita e avvolge nella sua forma rendendola nuova forma e arcobaleno di un nuovo universo, provocano in noi l’anamnesi di qualcosa che ci è già proprio, anche se lontano e remoto, ma che pullula da sempre — come in una nebbia — nell’orizzonte della nostra coscienza.

                        Attraverso l’anamnesi di tale cultura primigenia, facendo ricorso al rituale dell’immaginario comunitario, Di Prospero tenta di definire, con la scultura, una forma unica (la «Grande stele»), che risolva e dissolva nella propria assolutezza tutte le possibili relazioni, tensioni e convergenze delle forme nello spazio.

                        Come per Costantin Brancusi anche nella scultura di Di Prospero le forme evocate non appartengono solo a quella storia ma si tramutano in racconto di una storia senza fine, patrimonio di un linguaggio in cui il tempo, è di un altro tempo e la storia è un’altra storia.” (...)

Carmine Benincasa

 

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            (...)  ”Mi sono chiesto e mi chiedo se forma sia figlio, o l’utero materno. Io credo che sia quest’ultimo. Sono cose ancora da spiegare bene...”. E di questo dilemma di discendenze Marino Di Prospero ne ha colto l’essenza, lasciando che lo spazio intorno alle sue opere prendesse forma continuata del terreno ad esso circostante e sapore di quel tempo che è alla base di ogni sviluppo di rapporto tra forma ed opera. La sua scultura - facendo, forse, felice Martini e lo stesso Fazzini - sa essere, infatti, terra ed acqua, aria e fuoco, vento e pioggia. Le sue forme sono fruscii leggeri che si insinuano dolcemente negli incavi nodosi di rami o nelle feritoie levigate di rocce arse dal sole. Meccaniche primordiali legano e slegano gli incroci di questa plastica originaria, dando vita a temi e visioni antropomorfiche come nel grande legno della “Virilità” del 1988, dove protuberanze falliche ricordano l’eterno atto d’amore e quella abitudine verticale rappresa in gran parte dei suoi lavori. Questi elementi svettano, infatti, lancinanti nel cielo, squarciando quel velo di verginità immobile del tempo. Questi simboli rivendicano la sovranità metafisica della natura sull’uomo, e della gloriosità monumentale del Divino sull’universo. Come riti tribali - quali appunto quelli che accompagnano le festività del “Calendimaggio” - i suoi lavori sembrano essere usciti dalla fucina di un antico stregone (del resto non è stato Hauser ad indicare nella sua storia sociale dell’arte lo stregone-artista quale capo delle antiche tribù preistoriche?) che per incantesimo abbia dato improvvisamente vita al rito. (...)

Alessandro Masi

 

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(...)  L’arcaismo di una simbologia forte, primitiva, a volte barbarica, originato dal recupero di uno o più elementi prelevati dall’inesauribile deposito dell’immaginario popolare contadino (sassi, corde, corni) è esaltato dall’aspro procedere di vuoti e pieni frammentari e acuminati, come è ben visibile nelle opere lignee plasticamente più impegnate (“Virilità”, “Forca”, “Guerriera”, “La grande madre”). (...)

Antonio Gasbarrini

 

 

(...) Il primario interesse dell’abruzzese Di Prospero è un toteismo antropomorfo a spiccata connotazione erotica, nel senso della celebrazione di un mito della congiunzione e della fertilità che contempla l’interazione degli opposti complementari.(...)

Nicola Miceli

 

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(...) Il singolare atteggiamento di Marino Di Prospero verso la terra degli avi, il recupero delle tradizioni, la raccolta e reinterpretazione degli utensili del passato, stimolano la riflessione, pongono l’uomo di oggi a confronto con l’uomo di sempre.

            Più che i trattati di antropologia, di estetica o di astrologia, qui assume significato il recupero degli aspetti favolistici, onirici, mistici di una civiltà contadina ancor viva nel mondo agricolo e presente nella terra madre.

            Tali “presenze” egli esprime con suggestive modulazioni nelle pietre, giocando tra concavi e convessi, pieni e vuoti, sempre privilegiando la pietra bianca, simbolo di purezza, ingenuità, lindore incontaminato che sa superare gli eventi e restare candido al disopra del mondo.

            Tuttavia nelle opere più recenti, all’interno delle forme ovoidali, sinuose e ascensionali, Marino Di Prospero ha aperto una “finestra”, uno spazio rettangolare vuoto, un ipotetico sguardo oltre il presente  o forse un ponte lanciato tra il passato da un lato e il futuro dall’altro. (...)

 

Marcellino Campara

 

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            L’artista abruzzese fortemente  è legato ai valori ancestrali della sua terra, in particolare alla cultura contadina, i materiali da lui frequentati sono la pietra, il legno, i metalli, le corde, sovente combinati tra loro poiché l’idea fondamentale di Di Prospero è quella di subordinare la forma plastica all’utilizzo di elementi materici che siano più congeniali ai risultati che egli si propone di raggiungere. Risultati fortemente simbolici perché l’artista traduce le emozioni di un modo di vivere arcaico e, insieme, attuale, in forme plastiche talora allusive, talaltra esplicite, ma che sono per ciò stesso una sorta di metronomo del tempo/spazio, perché ne scandiscono le emergenze vitali, ma anche i rituali immutabili dettati dalle esigenze imperiose dell’eco-sistema in cui l’artista opera, anima e corpo.

            Una di queste esigenze è quella che impone all’artista di realizzare opere plastiche in cui elementi che hanno attinenza con l’iconografia naturalistica, sovente inseriti in un involucro di tipo architettonico, finiscono per apparire ai nostri occhi quasi simulacri di divinità sconosciute, idoli di un tempo passato, aventi carattere propiziatorio o apotropaico (qualche titolo di scultura: “Cibele”, “Forma sacra”, “Fertilità”, “Sestante”, “Organicomeccanico”, “Maternità”).

Carlo Melloni

 

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Marino Di Prospero e le «migrazioni» della forma

 

«Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine / E finire è cominciare. / La fine è là dove partiamo», ha scritto Thomas Stearns Eliot e nel movimento continuo e nell'avvicendarsi di morte e rinascita sta forse il senso delle opere più recenti di Marino Di Prospero, una stagione che fiorisce significativamente ad apertura del nuovo millennio e che privilegia ancora una volta il puro marmo di Carrara, esaltandone la segreta predisposizione a una morbida modulazione, così che l'opera sembra quasi uscita dal cavo di una mano. Perché poi l'opera si risolve in un viluppo che diventa compenetrazione e che trova riscontro nell'accentramento della tensione verso l'interno o, all'opposto, il disporsi delle linee verso l'esterno, disperdendo nell'aria l'energia creatrice, che tornerà a rapprendersi. Il tutto in una forte condensazione simbolica, in cui il movimento dall'esterno verso l'interno, e viceversa, rivela uno stretto rapporto con le origini dei miti, quando essi ancora non si erano tradotti in forme antropomorfe.

Così, il carattere precipuo della scultura di Marino Di Prospero si ritrova in questa straordinaria concentrazione di forme diverse che cercano di diventare una cosa sola, senza perdere tuttavia la traccia della molteplicità. Da qui, come in antico, l'attenzione al volo degli uccelli, partendo da una sorta di uovo aperto e avvolgente, che si specchia nei fori paralleli che ne violano la superficie e si proietta all'esterno in tutta la sua purezza ed essenzialità. L'uovo creatore, principio di tutte le cose. Ma ecco, che, progressivamente, l'uovo aperto si ramifica in lingue che si spingono irresistibilmente verso l'alto, come una fiamma misteriosa che non brucia, ma sottrae spessore e volume alla forma, conferendole un plastico valore iconico. Sono formicolanti uccelli in volo, che vorrebbero staccarsi dalla materia, ma continuano a trattenerne gli spasimi e il risoluto consistere, perché morte e rinascita sono una cosa sola. La dialettica dei pieni e dei vuoti, dei concavi e convessi, trova nello slancio e nella impossibile dispersione la sua espressione più compiuta.

Siamo, dunque, alle origini dei miti e la forma acquista una straordinaria valenza e una grande forza allusiva. Il volo degli uccelli può allora trasformarsi anche in grandi vele gonfiate dal vento che conducono la nave verso porti lontani, per dare al mito il senso di una migrazione antica e recente, dalla pianura verso il mare, ma anche per moto contrario, raccontandoci la storia di ieri e di oggi e con essa il fascino e le vicessitudini di un territorio: «nella mia fine è il mio principio».

Sergio Garbato